Un volo

Storia di un ragazzo a cui ho imparato a volere bene

A volte ci si getta dal cavalcavia per darsi la morte, altre volte perché si desidera spasmodicamente spiccare il volo e ritrovare finalmente ragioni di vita. Il gesto è lo stesso: bisogna superare una protezione, guardare il vuoto sottostante, darsi una spinta e lasciarsi cadere per riempire quel vuoto di un nuovo e salvifico significato.

Michele l’ha fatto: quaranta metri di volo. Si è lanciato nel vuoto in una fase della vita in cui non aveva ancora coltivato un io sufficientemente forte, non sentiva di essersi guadagnato l’apprezzamento della famiglia d’origine, aveva perso il contatto con i coetanei perché aveva mollato la scuola, si ritrovava anzitempo in mezzo ai grandi in fabbrica, con le mani sporche d’olio, e non vedeva futuro: solo nebbia, benché in realtà non volesse morire, ma solo zittire un dolore e rinascere da un gesto estremo. Aveva solo diciassette anni.
Oggi Michele ha 35 anni, è una persona serena e soddisfatta, ma non ha dimenticato il ragazzo che è stato. E per amore di quel ragazzo — e pensando a quanti, in un’età della vita bellissima e terribile, potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella in cui si è trovato lui — ha deciso di raccontarla, quella storia. Con semplicità e coraggio.

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